Cosa mangiare

Se ci siete già stati, oppure avete ascoltato i racconti di amici, sicuramente avrete capito che Napoli è una città tutt’altro che banale. Ad ogni angolo di strada c’è una storia da raccontare, uno spaccato di vita che vale la pena ricordare una volta ritornati a casa. L’estrosità è la caratteristica che fa di Napoli un luogo dove il colore è di casa. Un attributo predominante che non può non colpire il turista, che può decidere di amarla o disprezzarla. In quest’ultimo caso, il sentimento non potrà mai essere totale perché chi conosce il capoluogo partenopeo sa bene che la cucina napoletana è in grado di rapire qualsiasi palato, anche quello più diffidente. Nella cucina, così come per ogni cosa a Napoli, ogni piatto è un racconto, un viaggio tra epoche remote o invenzioni recenti. In realtà, la cucina napoletana è un argomento che meriterebbe una vera e propria antologia, pertanto di seguito ci limiteremo solo a segnalarvi i piatti da non perdere durante la vostra tappa a Napoli senza avere la pretesa di essere esaustivi.

– Primi piatti
– Secondi piatti
– Contorni
– Dolci
– Bevande

Primi piatti

Pizza

Fidatevi, anche se l’avete mangiata mille volte in locali tutti degni di nota a Napoli sarà diverso. La pizza a Napoli è un’esperienza. Va assolutamente assaggiata in loco, nelle pizzerie rigorosamente a forno a legna (l’unico a raggiungere una temperatura compresa tra i 450°C e i 485) disseminate a ogni angolo della città. Se siete presi dalle tantissime cose da vedere a Napoli, non temete. Come dicevamo l’estro qui la fa da padrone e i napoletani hanno provveduto a inventarsi la pizza “a portafoglio”, un gustoso street food: si tratta di una pizza di dimensioni più contenute rispetto a quella che si mangia seduti a tavola, piegata in quattro.

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Frittata di pasta o pizza di maccheroni

E’ uno di quegli alimenti che definire calorici è poco. Quando è nata, la pizza di maccheroni era considerato un piatto povero, in quanto costituito principalmente di avanzi: gli ingredienti di cui è composta sono la pasta, che può essere sia lunga che corta, uova, formaggio, salumi mozzarella e provola. Può essere cotta sia fritta che al forno. La pizza di maccheroni, di solito, i napoletani amano mangiarla durante le gite fuori porta: per la sua compattezza risulta essere comoda e allo stesso tempo molto nutriente.

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Pasta e patate

Un classico della cucina napoletana, è un piatto dalle origini umili e povere, che anticamente ha sfamato intere generazioni. Una ricetta affermatasi nel regno di Napoli probabilmente intorno al XVIII secolo e diffusasi rapidamente anche nelle zone più remote della periferia. Prima di questa data, infatti, la patata non si era ancora diffusa con prepotenza nelle cucine europee, senza contare il fatto che il pomodoro, altro ingrediente fondamentale di questo piatto, era considerato fino al secolo prima un alimento tossico, per tanto snobbato dalle massaie di ogni estrazione sociale. Una volta capito però l’immenso valore nutrizionale di questi due incredibili prodotti, le classi popolari e i ceti più poveri li adottarono a pieno titolo come ingredienti dominanti nel proprio ricettario, secondo una tradizione che continua ancora oggi. La pasta e patate rievoca ancestrali ricordi solo al sentirne l’odore, per raggiungere poi l’apoteosi del piacere con il primo assaggio, quando le papille gustative sono già in festa ancor prima di immergersi nell’ambito pasto. La diffusione e la propensione alla rivisitazione di questo piatto, hanno prodotto con il tempo decine e decine di varianti, tutte diverse, e tutte rivendicano il titolo di originalità e tradizione.

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Pasta e fagioli

A Napoli, oltre all’idea geniale di accostare ai fagioli la bontà delle cozze, esiste un altro modo per rendere speciale questo piatto, un modo che naturalmente fa affidamento alle ricette più semplici delle cucine delle nostre nonne, ma che ancora oggi fa leccare i baffi: la pasta e fagioli con la cotica. Va ricordato che a Napoli, a differenza di molte altre città italiane, la pasta e fagioli, così come con altri legumi, non viene scaldata a parte, ma cotta direttamente nella pentola dei fagioli stessi. Anche per questa ricetta si fa difficoltà a trovare un momento preciso storico dove collocarla, ma una cosa è certa, la pasta e fagioli con la cotica rientra di diritto tra i piatti semplici e poveri ma ricchi di bontà, tipici della nostra tanto amata cucina napoletana. Anticamente mangiare piatti con condimenti naturali come il grasso animale che veniva fuori dalla cottura delle cotiche non era un problema, la vita era meno sedentaria e nessuno aveva il tempo di sentirsi in colpa se a pranzo mangiava più condito del previsto. Aggiungere la cotica nei fagioli era una piacevole consuetudine che oggi invece può essere definito uno sfizio o un concessione prevista di tanto in tanto. Resta il fatto che mangiare la pasta e fagioli qui, in sede Partenopea, oggi, è d’obbligo.

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Scialatielli ai frutti di mare

A cominciare dall’uso degli scialatielli, se possibile di Gragnano, si capisce subito che si tratta di un piatto made in Campania. Questo piatto nacque nel 1978 per mano dello chef Enrico Cosentino, che nell’occasione vinse il premio entremetier dell’anno. Esistono diverse teorie a riguardo l’etimologia del nome: una dice che il loro nome deriva dall’unione di due parole dialettali napoletane: scialare, che significa godere e tiella, che indica invece una padella; l’altra sostiene che Il termine dialettale “scialatielli” deriva dal verbo “sciglià” che nel dialetto napoletano ha il significato di “scompigliare”.In lingua italiana il verbo scompigliare, riferito ai capelli, significa “arruffare, mettere in disordine, scombinare”.E, in effetti, gli scialatielli, disposti fumanti sul piatto da portata, appaiono come una massa disordinata di pasta. Questo formato di pasta particolare è più corto dei più usati spaghetti, ma è certamente più largo perché ha una sezione rettangolare ed irregolare. Tradizione vorrebbe che vengano fatti a mano. Gli scialatielli vanno a nozze con i piatti di pesce o con i frutti di mare e sono il piatto forte della cucina amalfitana.

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Secondi piatti

Frittura

Napoli è il regno del fritto, gran parte della cucina partenopea, infatti, utilizza questo saporito metodo di cottura. La frittura è così in voga in città tanto che all’inizio del secolo scorso a Napoli è nato il primo fast food: “Vac’ ‘e press”. Diversamente da quelli che conosciamo oggi, il fast food napoletano in questione è una friggitoria. Casi specifici a parte nel menù di ogni friggitoria napoletana che si rispetti si trovano crocché di patate, sciurilli (fiori di zucca ripieni di ricotta e salame, passati nel pan grattato e fritti), le palle di riso (parenti stretti delle arancine siciliane); le frittelle di cicenielle (pesce azzurro piccolissimo e bianco, amalgamato in pastella) le paste cresciute (pasta di farina, acqua e lievito fritte in olio bollente) e le mozzarelle in carrozza, ovverosia due fette di pane ammorbidite nel latte, passate nell’uovo e fritte con una fetta di mozzarella nel mezzo. La frittura napoletana, lo si riconoscerà, è un vero e proprio paradiso per il palato. E un purgatorio per la linea.

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Polpo alla Luciana

La bellezza di Napoli e dei napoletani è saper creare da cose semplici un qualcosa di insolito e inspiegabilmente eccezionale. Nel caso della cucina una tappa a Napoli non potrà prescindere dall’assaggiare il “polpo alla luciana”, così chiamato perché la sua facile ricetta, che prevede pomodoro, peperoncino, aglio, olio, olive e capperi, oltre al polpo, fu ideata nel borgo di Santa Lucia.

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Pizza di scarole

E’ un rustico fatto di farina e acqua che racchiude scarole saltate con aglio, olio, olive nere, pinoli, uva passa e (secondo i gusti) acciughe. Oltre ad essere una pietanza molto appetitosa è una delle guest star della tavola della vigilia di Natale.

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Salsiccia e friarielli

Un piatto MUST della cucina napoletana. E’ a base di verdure e carne, davvero unico ed inimitabile. Non c’è napoletano che si rispetti che non li ami e li prepari ad hoc. I friggiarelli, che crescono nelle zone di Napoli, sono difficilmente reperibili in altre zone della Campania e d’Italia, infatti vengono sostituiti con le cime di rapa, ma la ricetta viene così stravolta. Anticamente le colline di Posillipo e soprattutto del Vomero erano piene di orti e di terrazzamenti coltivati. La collina del Vomero, dove crescevano i friarielli, fu denominata “o’ coll de friarielle”. Oggi le zone in cui vengono coltivati sono per lo più quelle interne della Campania. Ci sono diverse interpretazioni per quanto riguarda il nome: alcuni sostengono che derivi dal castigliano “frio-grelos” che significa broccoletti invernali ed altri dal verbo napoletano“frijere”, friggere. Le origini di questo piatto sono molto antiche. Nel periodo di maggior povertà, le donne napoletane, soprannominate “zandraglie”, si recavano nelle cucine dei nobili, dove i “Monsù”, ovvero i cuochi d’Oltralpe, elargivano avanzi di cibo, come le interiora del pollame e degli animali. Era un modo per far fronte alla fame ma non sempre era possibile reperire qualcosa. Con il loro ingegno, i napoletani iniziarono a rendersi conto che per assicurarsi il cibo quotidiano avrebbero dovuto “puntare” su alimenti umili e poveri, come le cime di rapa. Iniziarono così a cogliere gli ammassi floreali non ancora aperti delle rape ed a cucinarli, aggiungendo lo strutto, “a nzogn”, per darle sapore e renderle estremamente caloriche. Oggi lo strutto è stato sostituito con l’olio extravergine d’oliva. Venivano sempre accompagnati dalle salsicce, rigorosamente di maiale. “ ‘A sasicc’ è ‘a mort d’ ‘o friariell”, dice un detto napoletano.

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Contorni

Parmigiana di melanzane

Secondo alcune abduzioni etimologiche, sulle quali, però, non mettiamo la mano sul fuoco, si chiama così perché gli abitanti di Parma, anticamente, erano noti per cucinare a strati, così come avviene per questo piatto della cucina tipica napoletana. Le melanzane vengono fatte a fette e fritte, prima delle frittura possono essere passate nell’uovo o meno, dipende dai gusti. Ogni strato, melanzane a parte, è composto di mozzarella, salsa di pomodoro, fiordilatte e basilico. L’intero composto viene poi passato nel forno per dare compattezza e far sciogliere il fiordilatte. Ci auguriamo, quasi ce ne fosse bisogno, che nonostante le incertezze sull’origine del termine converrete sulla specialità indubbia del gusto di questo piatto.

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Tortano o casatiello

Sono rustici  fatti di pasta di pane, arricchita con gustosi ingredienti quali pasta formaggi vari, strutto, cicoli di maiale, salumi. La differenza tra i due non è soltanto terminologica: il tortano non comprende le uova sode al suo interno; allo stesso tempo sono proprio le uova a fare del casatiello una prelibatezza tipica del periodo pasquale.

 


 

Gattò (dal francese Gateau) di patate

E’ l’ennesima bomba di calorie e di gusto proposta dalla cucina napoletana: è un composto fatto di patate lessate e schiacciate, latte, a cui si aggiunge salame, mozzarella, pepe, sale e parmigiano: il tutto è tenuto assieme dalle uova. Dopo aver amalgamato per bene, il gateau per essere completato viene ricoperto con pane grattugiato e passato in forno.

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Dolci

Sfogliatella

La grandezza di questo tipico dolce partenopeo in città è da tempo considerato un culto. La sfogliatella nacque nel convento di clausura di Santa Rosa, sulla costiera amalfitana, tra Furore e Conca dei Marini. Un giorno di 400 anni fa, la suora che si occupava della cucina, per non buttare la semola avanzata cotta nel latte, ci aggiunse un pò di frutta secca, zucchero e liquore al limone. “Potrebbe essere un ripieno“, disse. Allora preparò due sfoglie di pasta, di cui a quella superiore le diede una forma ‘a cappuccio di monaco’ e vi sistemò il ripieno. La Madre Superiora, avendo subito fiutato l’affare, decise di far mettere i dolci sulla classica ruota in modo da venderli ai villici che in cambio vi lasciavano qualche moneta. Il dolce trasse il nome proprio dalla Santa del convento e fu diffuso in tutto il territorio. La Santarosa, arrivò a Napoli solo nei primi dell’ 800, per merito del pasticcere Pasquale Pintauro, che aveva una bottega in Via Toledo di fronte a Santa Brigida. Non si sa come Pintauro sia entrato in possesso della ricetta originale, però la modificò eliminando la protuberanza superiore a cappuccio di monaco. Nacque così la sfogliatella, la “riccia”, a forma di conchiglia triangolare e nella sua versione più nota.Da tempo la città di Napoli e Conca dei marini si contendono la “paternità” della sfogliatella. Ma che importa dove sia nata? Riccia, frolla ,con la crema o con la semola, la sfogliatella è sempre na’ poesia!


 

Babà

Il babà è un dolce tipico della pasticceria napoletana fatto con pasta lievitata, la cui consistenza spugnosa viene imbevuta in uno sciroppo liquoroso a base di rhum che gli conferisce l’inconfondibile sapore. L’origine del babà va oltre i confini di Napoli: è stato inventato nel lontano Settecento dall’ex re polacco Stanislao Leszczinski, infuriato per l’ennesima reazione ad un dolce molto secco, lo lanciò lontano, colpendo una bottiglia di rhum; nella stanza si sprigionò un particolare profumo e Stanislao, incuriosito, assaggiò il dolce imbevuto di liquore. Gli piacque molto e dedicò questa sua creazione ad Alì Babà, protagonista del celebre racconto tratto da “ Le Mille e Una Notte”. Il dolce si diffuse in tutta l’Europa e nell’800, sotto il dominio dei Borboni, la cucina napoletana ne conobbe l’influenza grazie all’arrivo dei “monsù”(gli chef francesi) che furono chiamati in città per prestare servizio presso le nobili famiglie napoletane. Fu grazie alla maestria dei pasticceri napoletani, attraverso una lunga lievitazione dell’impasto, che il babà divenne ancora più soffice e fu grazie anche alla loro inventiva che questo dolce assunse la tipica forma a fungo. Il tocco finale consiste nel bagnarlo con una soluzione di acqua e zucchero, aromatizzata al limone e corretta al rhum.E’ anche considerato il dolce da passeggio, da gustare in tre golosi morsi per le strade del centro città.Questo dolce è talmente radicato nella cultura gastronomica locale che l’espressione napoletana“si’ nu babà” viene usata per indicare una persona dolce, affettuosa e adorabile.

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Pastiera

L’origine della Pastiera è antichissima e proviene da culti pagani per celebrare l’arrivo della primavera. La leggenda dice che la sirena Partenope aveva scelto come dimora il bellissimo golfo di Napoli e da lì cantava con voce melodiosa e dolcissima. La gente allora per ringraziarla di questo meraviglioso canto le portò dei doni, sette doni per l’esattezza, come le sette meraviglie del mondo, ognuno dei quali aveva un significato:

1)la farina, simbolo di ricchezza,

2) la ricotta, simbolo di abbondanza,

3) le uova, simbolo di riproduzione,

4) il grano cotto nel latte, simbolo della fusione del regno animale e di quello vegetale,

5) i fiori d’arancio, profumo della terra campana,

6) le spezie, omaggio di tutti i popoli

7) lo zucchero per acclamare la dolcezza del canto della sirena.

La sirena gradì i doni, ma nel raccoglierli li mescolò in un amalgama che le lasciò tra le mani la prima pastiera di cui fu l’inconsapevole autrice. La pastiera è entrata poi nella tradizione cristiana diventando il dolce con cui festeggiare la Santa Pasqua. Ancora oggi è presente sulla tavola pasquale in tutte le famiglie ed è simbolo di pace. La preparazione della pastiera è complessa, lunga e laboriosa. La tradizione vuole che la pastiera si prepari il Giovedì Santo anche perché è un dolce che invecchiando migliora e che si può conservare fino a dieci giorni, ma non in frigo perché altrimenti si rovinerebbe subito.


 

Struffoli

Sebbene gli struffoli siano i dolci più napoletani che ci siano,pare che siano giunti nel Golfo di Napoli tramite i Greci da cui deriverebbe il nome “struffolo”: precisamente dalla parola “strongoulos”, ovvero arrotondato. Secondo altri, invece, pare che la parola struffolo derivi da “strofinare” facendo riferimento al gesto che compie chi lavora la pasta, per arrotolarla a cilindro prima di tagliarla in palline. C’è anche chi ritiene invece che lo struffolo si chiami così perché “strofina” ossia “solletica” il palato per la sua bontà e chi, addirittura, pensa che la radice del termine “struffoli” sia da collegare allo strutto con cui anticamente venivano fatti e in cui venivano fritti. Si tratta di un dolce tipico della tradizione napoletana costituito da numerose palline di pasta “morbidamente croccante”, fatte con farina, uova, zucchero, burro ed aromi; fritte in olio bollente o strutto e, una volta raffreddate “avvolte” dal miele e “assemblate” a forma di ciambella o di “piramide”. Si decorano con frutta candita, e confettini argentati e zuccherini variopinti. Ad ogni modo, se è ancora incerta la loro provenienza, è certo che sono destinati da sempre ad arricchire le tavole in festa dei napoletani , fino ad entrare nelle case di tutta l’Italia Centro-meridionale acquisendo di tanto in tanto forme e nomi diversi ma restando quasi sempre identici nella sostanza. Come per tutte le ricette ormai “codificate”, gli struffoli sono insidiosi poiché nascondono molti segreti, spesso custoditi gelosamente. Uno di questi riguarda la quantità di miele che deve essere usato in maniera copiosa. Senza di lui, questo dolce non sarebbe lo stesso. Il miele è il simbolo della Dolcezza al punto che il corpicino di Gesù Bambino viene definito “roccia che dà miele”. Non è quindi un caso che gli struffoli siano un dolce che festeggia la natività.

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Bevande

Caffè

I racconti che riguardano l’arrivo del caffè a Napoli e l’incredibile impatto che esso ebbe sulla cultura napoletana sono vari. Una prima versione dei fatti narra che Maria Carolina d’Asburgo portò con sé a Napoli il rito del caffè da Vienna, sua città d’origine, in seguito al matrimonio con Ferdinando di Borbone. Un secondo aneddoto sull’introduzione del caffè a Napoli vede come protagonista il musicologo Pietro Della Valle,napoletano d’adozione, che si recò in Terra Santa in pellegrinaggio, dove scoprì le virtù della famosa bevanda. Di ritorno in patria ben dodici anni dopo, Della Valle portò con sé dei chicchi di caffè, introducendo il popolo napoletano al rito del caffè. Ma alla fine del Settecento, era ancora consumato soltanto da un’elite ristretta. Ben presto, proprio a Napoli, venne inventata la macchinetta da caffè napoletana, la cosiddetta caffettiera che permise di abbandonare il sistema di infusione del caffè alla turca e di produrre il celeberrimo caffè scuro e denso famoso in tutto il mondo; anche con la successiva invenzione della macchina per espresso si preferì mantenere la miscela a tostatura scura della quale i napoletani erano divenuti velocemente grandi maestri al punto da far guadagnare al proprio caffè il titolo di “espresso napoletano”. Avete mai sentito parlare del caffè sospeso? Questa era, e in pochi casi è ancora, un’usanza tipica napoletana. Come spesso accade allora anche in questo caso il caffèsi lega al capoluogo campano.In cosa consisteva? In un gesto solidale e filantropico fatto da qualcuno che entrava all’interno di un bar con uno stato d’animo molto felice e gioioso. Proprio grazie a questo suo stato d’animo, egli decideva di prendersi un caffè e pagare sia la sua consumazione, sia quella che sarebbe avvenuta dopo di lui: aggiungendo i soldi necessari per pagare un’altra tazza di caffè. Praticamente, in poche parole, venivaofferto il caffè ad uno sconosciuto che sarebbe entrato nel locale dopo di lui.Se la persona arrivata successivamente avesse chiesto la presenza di un caffè sospeso, questo sarebbe andato certamente a lui, altrimenti a chiunque ne avesse chiesto la presenza. Come fare? Basta pronunciare una semplice frase: “Due caffè per favore, uno per me e uno sospeso” .